Immagine presa dalla copertina del libro di Gianni Mura "Non gioco più, me ne vado. Gregari e campioni, coppe e bidoni". Editore: Il Saggiatore
Sabato 21 marzo si è spento GIANNI MURA, l'ultimo maestro del giornalismo sportivo italiano.
Pochi ricordano che ha contribuito al volume "Derthona. Cento anni di calcio in provincia", con un intervento dei suoi, spaziando tra ricordi d'infanzia, aneddoti sulla storia dei Leoni ricondotti al loro contesto storico di calcio di provincia bello e genuino, sprazzi di storia mondiale del football.
Ora che, più che mai, siamo "mendicanti di bellezza" (definizione degli appassionati di palla rotolante di Soriano, ricodata da Mura nelle ultime frasi), abbiamo pensato di riproporre quell'articolo, per ripensare a quel è stato e potrà essere il calcio a Tortona.
Buona lettura.
"Calcio, mistero senza fine bello"
di Gianni Mura
articolo pubblicato in "Derthona. Cento anni di calcio in provincia", 2008, Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona.
Cent'anni sono cent’anni. Sempre e comunque. Per l'Inter e per il Derthona. Cent'anni sono un contenitore enorme di storie molto diverse, questo e ovvio, ma tutte le storie meritano di essere raccontate. Credo sia più difficile arrivare al secolo di vita in provincia che nelle grandi città, anche se certe cose sono comuni. Più calcio in tv equivale a più telespettatori, a casa o nei bar, magari bevendo la tipica gazzosa rossa, e meno gente negli stadi. Nel caso di Tortona, c’è la particolare collocazione geografica a rendere più facile la diserzione dai colori locali. La città è a 76 km da Genova, 83 da Milano, 110 da Torino: sono già 6 squadre di A a fare concorrenza e a togliere ossigeno ai botteghini del “Fausto Coppi”. Squadre? Più squadroni che squadrette. Poi c’è anche una concorrenza meno vistosa, ma reale. Nel circondario, nel raggio di 7 km, ci sono altre 10 squadre. Ho colto questa frase, in un bar di Tortona frequentato da calciofili abbastanza attempati: “Ti ricordi di quando arrivavano almeno 100 persone da Cassano Spinola? Adesso hanno la loro squadra e non vengono più”, frase illuminante, perché Cassano Spinola non figura nell’atlante del grande calcio. Mi ha fatto capire che ci può essere concorrenza dall’alto come dal basso, e conseguente erosione delle entrate.
Una rosa è una rosa è una rosa, diceva Gertrude Stein, e dunque un secolo è un secolo è un secolo, dentro ci sta di tutto: le luci degli anni '20, quando il presidente Zavattari poteva permettersi di andare a Vienna e a Budapest e parlare con i ct delle rispettive nazionali per farsi suggerire un allenatore, le ombre degli anni ’90 con quattro retrocessioni consecutive, roba da ammazzare un elefante ma non, a quanto pare, un leoncino. "Pro tribus donis simil Terdona leoni" è il motto sullo stemma cittadino. Dertona e Terdona: non sono molti i casi di città con due nomi-anagramma. Sui tre doni che conferirebbero caratteristiche leonine s’è molto discusso e non è il caso di tornarci sopra. Fatto sta che la squadra di Tortona si ritrova nella simbologia più aggressiva (leoni, lupi, aquile) e non in quella più mite (rondinelle, canarini). Quanto ai suoi colori (il nero e il bianco, più nero che bianco) pare siano ispirati al nero del Casale (a sua volta nato nel 1908) e alle "bianche casacche" della Pro Vercelli. Aggressivo il vecchio Derthona doveva essere. Anche depurando la cronaca da eccessi di campanile, è interessante uno stralcio tratto da "La vedetta d’Italia", giornale istriano. L’antefatto: a Tortona nel maggio del '24 c'è una partita con l'Olimpia, squadra di Fiume che rappresenta "i fratelli finalmente redenti e riuniti alla Patria”. Finisce 3-1 per il Derthona, poi tutti amichevolmente a cena all'albergo Italia. Per il ritorno, a Tortona si fa una colletta che copra le spese di viaggio (si raccolgono 956,70 lire) e poi si va a giocare in Istria. “Giocatori? No, perdio. Massacratori di uomini, gente indisciplinata, molto poco educata. Eccellenti provocatori. Per avere ragione di simili arieti bisognerebbe affrontarli corazzati. E non vogliamo riferire le parolacce gridate all’arbitro né le provocazioni che tentarono la sera in piazza Dante”. Ma già prima, nell’ottobre del '22 (il periodo in cui il Derthona volò più alto) c’è da ridire non sui giocatori, ma sul pubblico. A Tortona c’è la Juve, che va sotto di un gol (Crotti) ma poi ne segna due e vince. Per i tifosi, grazie all’arbitro, tant’è che minacciano più volte d’invadere il campo. “Esortiamo il pubblico ad essere più sportivamente educato, e specialmente le donne sappiano far silenzio". La settimana dopo al campo di via Fornaci, con l’erba che arriva alle caviglie, c’è l’Esperia Como. “In un incontro con Bonzani, fermo per l’arresto della palla, l’esperino Ronchetti I cade al suolo con una gamba fratturata. Venutesi a conoscere le poco floride condizioni della famiglia dello sfortunato giocatore, si iniziò subito una sottoscrizione fra il pubblico, sottoscrizione che sul campo fruttò un migliaio di lire. Sappiamo inoltre che la Direzione del Derthona EBC si occuperà amorevolmente del Ronchetti durante la sua degenza all'Ospedale nostro, e che provvederà a sovvenzionarlo per le giornate di lavoro che sarà costretto a perdere”. Questo resoconto (da “Il Popolo”) fa intuire un calcio molto fisico, in una cornice calda e faziosa, ma anche capace di gesti di solidarietà. In quegli anni cambia la storia d'Italia, non solo quella del calcio, che va verso un professionismo più accentuato. Difficile tenere il passo economicamente, ma anche per reclutamento: il Derthona con otto giocatoli tortonesi su undici passa da realtà a foto virata seppia. Il portiere Todero nella vita fa il calzolaio e come calciatore si prende cura degli attrezzi da lavoro dei compagni. Bello, ma il professionismo che avanza ridurrà questi calciatori a figurine da presepe. Che sopravvivono giusto nella grande cornice che è un secolo. Un secolo è come un maiale, non si butta via nulla. Non i vetri rotti ai frati di Santo Stefano, in piazza Malaspina, non il più giovane presidente nella storia del calcio (Pierfausto Orsi, a 19 anni), non lo spareggio di Marassi con lo Spezia (1° luglio 1923) in attesa di un golden goal mai arrivato. 0-0 dopo i supplementari, calci di rigore non ancora escogitati, avanti a oltranza per 207 minuti (immaginarsi in che condizioni, più di due partite in una, a luglio) e poi la sospensione per buio. Non i giocatori tortonesi arrivati in alto (Manueli, Riva), non gli avversari illustri (Simone e Casiraghi i più recenti), non i nomi passati da Tortona, tra campo (Gritti, Civeriati) e panchina (Campagnoli, Cucchi, Ardemagni, Pelagalli, Domenghini, Fossati). Non uomini di sport come Vittorio Vinciguerra. Non presidenti come Franzosi, che pilotano il Derthona dalla Prima categoria alla serie D, poi qualcosa si rompe e allora Franzosi fonda un’altra squadra, col suo nome, che farà la guerra al Derthona. Sono episodi, singolari, ma se vogliamo abbastanza in tinta con la storia. Tortona (allora, Terdona) con Milano e contro Pavia. Assediata dal Barbarossa per due mesi, presa per fame e sete, distrutte torri e mura. E poi le diatribe tra “intrinseci” Guelfi ed “estrinseci” Ghibellini, il rapido consolidarsi e sciogliersi di alleanze (ora con Milano, ora contro). In quest’ultimo pezzo di Piemonte (dal 1738 coi Savoia) che confina con Piacenza e si giova dell’asse Milano-Genova la vocazione è agricola, ma qualche fabbrica dà sicurezza. Sulle colline argillose si fa un buon vino (molto migliorato negli ultimi 15 anni) e si assiste al pellegrinaggio ciclistico sulle strade di Fausto Coppi: talmente grande che nessuno si lamenta se uno stadio di calcio ha il nome di un ciclista. Nel Tortonese sono Castellania, Villalvernia, poco lontana è Novi Ligure, la Siof serbatoio della Bianchi era a Pozzolo Formigaro. Se qui c’era un dio dello sport, ha dato al ciclismo quello che non ha dato al calcio: le leggende. Campionissimo, superlativo del sostantivo, fu coniato (così mi hanno detto) da Salvator Gotta per Costante Girardengo, e poi passò a Fausto Coppi. Di Salvator Gotta (“Piccolo alpino”) è il primo libro che ho letto. La Milano-Castellania è una delle prime corse che ho seguito, quand’ero ragazzo di bottega alla “Gazzetta”. Solo l’anno scorso invece ho scoperto che un nipote di Coppi, il figlio di Marina, fa vino a Castellania, e anche buono (Timorasso e Barbera). Se qui c’era un dio dello sport, alla fine è stato cattivo con Coppi. All’ospedale di Tortona qualcuno ce l'avrà avuto sulla coscienza: curato per un’influenza, nessuna analisi del sangue, quando a Oagadougou aveva preso la malaria, e per salvarlo sarebbe bastata qualche compressa di chinino. Al Pasteur di Parigi Geminiani l’avevano salvato, e suo fratello s’era messo in contatto telefonico coi medici che curavano Coppi. “Guardate che può essere malaria” disse. “Voi curate i vostri che ai nostri ci pensiamo noi”, gli fu risposto. Era lunghissimo il funerale sui costoni bianchi di neve, in quella prima settimana di gennaio del '60. Sembrava la scena di un film di Luchino Visconti (un cui omonimo antenato, nel 1347, guidò le truppe che occuparono Tortona). Gianni Brera, che non amava particolarmente i Savoia, ma molto la storia, considerava Coppi un pavese dal dialetto leggermente diverso, ma figlio di colline molto simili a quelle d’Oltrepò, fuggito dalla fatica di lavorarle in sella a un cavallo d'acciaio (sempre fatica, ma remunerata molto meglio) e morto non tanto di malaria (sempre Brera che parla) ma di mal di vivere, di batterie esaurite. Sono considerazioni attorno a Tortona (di cui attorno è anagramma).
Il Derthona, onestamente, l’ho visto giocare una volta sola, a Varedo contro la Lilion Snia, allora si chiamava serie D, e ricordo solo la divisa nera con bordi bianchi e un’ala destra velocissima e traccagnotta. Molte ali erano così, a quei tempi. Le ali e i terzini erano i più bassi, anche i portieri erano più bassi. A pensarci bene, tutto era più basso: era un calcio ad altezza d'uomo. Paolo Conte (siamo sempre in Piemonte), oltre a essere uno dei pochi milanisti di Asti (anche se discorre più volentieri di Finney e Pedernera che di Kakà e Pirlo), ha dato definizioni azzeccate, tipo "La lucertola è il riassunto del coccodrillo”, oppure “Conosco benissimo il Sudamerica, non essendoci mai andato” (poi ci è andato). Ecco, posso dire di conoscere quanto basta il Derthona: grandezze e miserie dei piccoli centri, nel calcio, sono uguali. Conosco abbastanza anche Tortona e dintorni, per motivi artistici (Pellizza da Volpedo) ma soprattutto gastronomici. Ho apprezzato l'ajà più di trent'anni fa, al Cavallino San Marziano. Ci ho anche dormito, su lettoni altissimi da terra, l’auto parcheggiata nel cortile interno, quando la nebbia sconsigliava il ritorno a Milano, e anche un piacevole tepore alcolico. Il patron era un personaggio singolare, gran raccontatore, che non si perdeva (a Parigi) uno spettacolo di Josephine Baker. Una sera si accorse che una cliente importante, moglie di un notaio o di un avvocato, si era fatta scivolare nella borsetta un cucchiaino d’argento che stava sulla tavola, nella zuccheriera. Si accostò e rovesciò un po' di zucchero nella borsetta. Ma cosa fa? s’indignò la dama. Visto che s è presa un cucchiaino, le do anche un po’ di zucchero, disse lui. Naturalmente non la vide più nel locale, ma sono soddisfazioni e contengono gli umori della provincia. Conosco abbastanza le valli, i buoni salami, i tartufi bianchi (quando si trovano), quelle trattorie dove sembra che il tempo si sia fermato fuori dalla porta e la proprietaria ti sgrida se non mangi tutto.
Conosco l'importanza di un numero tondo tondo, com’è 100. Per questo scrivo una prelazione atipica ai cent'anni del Derthona. Nelle pagine che seguono la storia della squadra, i nomi di chi ha giocato, allenato, finanziato, scritto, tutto sarà citato da testimoni più vicini ai fatti e alle persone. Anch'io ho letto qualcosa, la storia dei 90 anni. “Lo sport procura alla Patria migliori soldati e migliori cittadini" (1924). La trasferta a Codogno nel '46, con 32 persone su un camion malandato, Cambiano i colori, i nomi, ma le storie si somigliano. Si nasce come polisportiva, è il calcio dei pionieri, seminato in Europa dagli inglesi. Ma ci sono tesserati che praticano marcia, ginnastica, scherma, ciclismo, e alla fine, come in capo a una selezione naturale, rimane un solo sport: il calcio. Il primo calcio, a Tortona, è autoctono. Non figurano nomi stranieri nelle prime formazioni, ma si può ritenere che qualcuno abbia visto giocare qualcun altro a pallone, probabilmente a Genova, o forse a Milano. Certo è che a Tortona si giocava a calcio già prima della nascita del Derthona. Il primo calcio è di campanile. Molto ardore, poca tecnica. Molto fiato, pochissima tattica. Oggi è facile sdottorare sul calcio. Gli avversari si conoscono, via cassette, prima di vederli: pregi e difetti. Una volta si facevano viaggi massacranti, si trovava un gruppo di energumeni disposti a tutto meno che a farsi battere, ed erano autentici combattimenti, pugni e calci dati e presi, e ancora grazie se a questi scambi non partecipava anche il pubblico. Docce: manco a parlarne. Ingaggi: non pervenuti. Interviste: ancora da inventare. Ecco, anche questo c’è nel grande contenitore e non è facile raccontarlo, bisogna immaginarselo. Un calcio senza tv e senza radio, senza numeri sulla schiena, senza preparatori atletici: eppure si giocava. I calciatori non erano tatuati e forse qualcuno li guardava con diffidenza: tipi un po’ bizzarri, per non dire matti, facce da confine, attaccabrighe, teste calde, non certo il partito ideale per una figlia. Va be’ che allora le figlie non sognavano di diventare veline e di conoscere biblicamente uno o più calciatori. Ma questo è un altro discorso. Può anche starci, nel grande contenitore, ma di passaggio. Le cronache, e sarà così fino agli anni ’50, sono povere di appunti tecnici e ricche di paroloni, come se una squadra fosse perennemente in trincea. Assalti all'arma bianca, formazioni indomite e pugnaci, cuori oltre l’ostacolo, strenui difensori, valorosi attaccanti, baluardi imperforabili, condotte ardimentose, respinte portentose, cuori e polmoni a volontà, garretti d’acciaio, eroiche resistenze, tonitruanti assedi, coraggiose iniziative. E facciamola corta, ma nella storia di uno sport (tanto più se popolare come il calcio) c’è anche una traccia del linguaggio impiegato nel racconto. E il linguaggio è cambiato molto. Anche chi commenta le partite del Derthona, immagino, sarà contagiato dai tic linguistici dei telecronisti, per cui un terzino che prima avanzava, o scendeva, adesso sale. E il contropiede è una ripartenza. Contropiede suona male, evoca il catenaccio, dato per sepolto ma ancora ben vivo (chiedere al Liverpool, al Chelsea, non stiamo parlando di Interregionale). Ripartenza è la stessa cosa, ma più ottimistica, dai sali che si riparte. L'ammucchiata a centrocampo, la micidiale tonnara, ora viene definita "fare densità". Un dribbling che libera verso la porta è una penetrazione.
Cent'anni sono il calcio che ci hanno raccontato e quello che abbiamo attraversato. Quello di A, di B, C, D e più giù ancora, della Nazionale accolta a pomodori, anche in finale ha perso con il Brasile (1970) e di quella campione del mondo a Madrid (1982), di quella che in Inghilterra si fa eliminare dalla Corea del Nord (2006) e di quella, tra mille diffidenze seminate da Calciopoli, in Germania vince la finale (2006). Il contenitore può essere usato come caleidoscopio, un movimento e cambia immagine: Baggino che tira alto il rigore, Taffarel che lo consola. Rivera che prende in controtempo Maier all'Azteca. Zidane che dà una craniata a Materazzi, Materazzi che da cattivo diventa eroe positivo. Scirea a Bergomi, doppio scambio nell’area tedesca (ma Bearzot non era un difensivista?) per preparare il gol di Tardelli, l’urlo di Tardelli. Scirea che era così bravo da non poter essere cattivo. Italia-Francia nel '78 in Argentina, primo minuto. Six in fuga sulla sinistra, Scirea che si ritrae per non abbatterlo (e non era ancora sanzionato il fallo da ultimo uomo), Six che crossa dal fondo, Lacombe-gol. La partita a scopa in aereo, la Coppa del mondo sul tavolino, Pertini-Zoff contro Bearzot-Causio. 1 due più anziani fumano (già, allora era ancora permesso). Pertini mazziere resta con in mano un 7 dispari, partita persa, ma Zoff elegantemente non glielo fa notare e si prende tutta la colpa. Reagirà ben diversamente (dimissioni) quando Berlusconi gli darà coram popolo dell’incompetente (perché non ha fatto marcare a uomo Zidane). Perché pure questo è nel contenitore: che Berlusconi tratti Zoff da incompetente. Ma nel contenitore ci deve stare anche una frase di Dorothee Solle, teologa tedesca: io non so spiegarvi il concetto di felicità, ma provate a dare un pallone a un bambino.
Per tifo o deformazione professionale, quando gli adulti parlano di una squadra di calcio intendono quella dei titolari, insomma la massima espressione di quei colori. Invece esistono anche le squadre del settore giovanile e sono fondamentali per la maturazione dei ragazzi. Hanno i loro sogni, intanto. Pochi riescono a realizzarli fino in fondo, cioè fino al professionismo, ma hanno il diritto di non vederseli spezzare dagli adulti, fossero pure i genitori die li caricano dei loro sogni, o forse è meglio dire aspettative. Intorno ai campetti minori si vedono e sentono cose raccapriccianti: padri che insultano i figli esortando a tirar fuori il carattere o altro, a farsi sentire, a rompere qualche gamba, madri che se la prendono con l'arbitro. Ezio Vendrame, estroso trequartista di Spal, Vicenza, Napoli, una volta rientrato al paese, in Friuli, s'era messo ad allenare le giovanili a modo suo, cioè facendo giocare tutti a turno, anche quelli bassini o cicciottelli, con l’obiettivo di farli divertire, prima che di farli vincere. Non durò a lungo, perché i genitori protestavano (devono giocare i migliori) anche se la squadra, stranamente, era prima in classifica. "Allenerò solo squadre di orfani", fu il suo commento, una volta lasciato l'incarico. Non ci sono molte squadre di orfani, in circolazione. E di episodi come quello di Vendrame, potrei raccontarne molti. Solo un altro, emblematico, di cui sono venuto a conoscenza perché me l’ha segnalato il diretto interessato, l'allenatore, di cui fornirò solo le iniziali: M.A. Squadra di Firenze, seconda in classifica. Ospita l'ultima in classifica, di un paese del Casentino. È inverno, c’è in giro l’influenza, dal Casentino arrivano solo dieci ragazzi. A questo punto M.A. fa un discorsetto ai suoi, nello spogliatoio. "Abbiamo due possibilità: o giochiamo con uno in più, e il regolamento ce lo consente, o giochiamo dieci contro dieci, e anche questo si può fare. Io ho la mia idea ma prima vorrei sentire la vostra". Gli risponde un corso: " Si gioca alla pari". Qualcuno aggiunge: “Già siamo più forti, con un uomo in più sarebbe un massacro”. M.A. è soddisfatto, se non avessero scelto i suoi giocatori questa strada sarebbe stato lui a indicarla, ma è meglio così. Perché nel calcio la formazione, per chi ancora ci crede (e sono tanti, e non sono famosi, e guadagnano zero o pochissimo) non è solo riempire le maglie dall'1 all'11. E’ questo, sì, ma insieme qualcosa di più profondo e socialmente utile: il rispetto delle regole, dell'arbitro, degli avversari, la sana voglia di vincere ma senza piccole furbate, slealtà, colpi bassi. Perché una squadra di calcio (da questa di Firenze, al Derthona, all’lnter, al Real Madrid) non è composta da gente che si è scelta i compagni di strada e d’avventura. Non è necessariamente un gruppo di amici. Ma la riuscita della squadra, i risultati che ottiene, dipendono dalla sua coesione. Ogni singolo deve accettare l'interesse del gruppo e imparare a convivere con pregi e difetti dei compagni. Non sarà una scuola che produce soldati migliori, come scriveva il “Popolo”, ma cittadini migliori sì. Una buona scuola basata su comprensione, condivisione, corresponsabilità, e in tutte queste cose il filo è il "cum" latino che è pure presente nell’etimo di compagnia e compagni (di squadra o, come si diceva una volta, di compagine). Dunque, M.A. è soddisfatto. Dai suoi ha avuto la risposta che voleva. Gli altri, il suo collega allenatore e anche i giocatori, prima del calcio d’inizio hanno ringraziato per il bel gesto. Anche dieci contro dieci, vincono i più forti: 4-2. Il giorno dopo, M.A. è convocato dal presidente. Vorrà complimentarsi, pensa l'allenatore. Invece è una tirata d’orecchi in piena regola, che naturalmente parte all’insegna della carota. Lodevoli i sentimenti che hanno portato alla decisione di giocare con uno in meno, dice il presidente, ma i genitori del ragazzo escluso sono venuti da me facendo fuoco e fiamme, e capisco anche loro. Quindi (ecco il bastone) la prossima volta, ci pensi bene o sarò costretto a prendere decisioni spiacevoli. Già cosi non mi pare una bella storia, ma ecco un altro particolare non secondario. Il presidente è un parroco.
Chi frequenta i mercati calcistici sa che troppo spesso i giovani calciatori sono numeri "Ho un '93 di 1.80" indica un quindicenne destinato al centro delia difesa. Sarà per routine o per paura della fantasia, ma i ruoli sono appiccicati addosso con largo anticipo. In Italia c’è stato un innamoramento folle nei confronti del calcio totale dell'Olanda, o meglio dell'Ajax perché ribaltava, allargandolo, il concetto di specializzazione: terzini che sapevano attaccare, attaccanti che sapevano difendere, centrocampisti che sapevano fare di tutto, in pratica l'unico specialista era il portiere (che pure agiva quasi da libero). Ma questa duttilità di Crujiff, Krol, Neeskens nasceva dal settore giovanile dell'Ajax. Dove, allora ma anche adesso, i ragazzi giocano in tutti i ruoti. Dove i tecnici delle giovanili sono pagati bene, perché sono loro a creare i titolari del futuro. In Italia questo non accade nelle scuole (dalle elementari alle medie, e anche oltre), figuriamoci nelle scuole calcio. È così che la formazione dall'1 all'11 conta più della formazione alla vita sociale. Con danni incalcolabili per la vita sociale. Anche lasciando in soffitta il vecchio “mens sana in corpore sano” si dovrà ammettere che una buona educazione sportiva è di grande aiuto nella socializzazione, nei rapporti con gli altri. E qualche danno nel calcio, visto che di calcio stiamo parlando, si nota. Sarà capitato anche a voi di vedere, in sere A, giocatori che non sanno fare uno stop decente, o un dribbling, un passaggio di venti metri, e di chiedervi: ma questo come c'è arrivato, in serie A? C'è arrivato per grazia ricevuta, o perché ha un abile procuratore, ma soprattutto perché da un bel po' il grande calcio ha scelto la strada dei muscoli e coltivato sempre meno la tecnica individuale. Gli allenatori del grande calcio non hanno più il tempo o La voglia di insegnare, di essere maestri come Liedholm, come Giagnoni, che a fine allenamento ho visto sottoporre Paolo Pulici, non l'ultimo piffero, a un supplemento di lavoro (il muro, la forca) per migliorare il destro. Oggi l'allenatore (ii mister, unica parola sopravvissuta del calcio d'antan) preferisce riconoscersi in una definizione di Fabio Capello: gestore di risorse umane. È l'inevitabile sbocco di quello che impropriamente si è definito calcio-azienda, con corollari ridicoli (sposare la filosofia aziendale, riconoscersi nel programma). Ovvio, il calcio è anche un’azienda: servono quattrini, e serve a far quattrini. Graditi i mecenati, ma basterebbero dei buoni amministratori che evitassero il profondo rosso dei bilanci. Nel caso, per il grande calcio si chiude un occhio, a volte due: c'è sempre una banca a garantire, o una politica che consente di spalmare (verbo di moda anche nei calendari agonistici) i debiti su una ventina di stagioni. Per motivi d’ordine pubblico, viene precisato. Un mobilificio, una tipografia, un ristorante non possono sguinzagliate ultrà per le strade, quindi non sono autorizzati a spalmare un bel nulla, falliscano pure in pace. Detto questo, si faccia qualche considerazione su un'altra parola-chiave legata al calcio: spettacolo. Ma cosa non lo è? Un bel tramonto è uno spettacolo ma, stando a trasmissioni tv con risate registrate, è spettacolo anche un bambino in bici che va a sbattere contro un albero, una grassona che scivola pattinando, una partenza iellata di Formula Uno. Per gli ineffabili nostri simili che sorridono e agitano la manina dalle macerie dei terremoti, per quelli che fotografano col telefonino un morto ammazzato, pure quelli sono spettacoli. I pestaggi ai disabili, le immagini segrete della compagna di banco, le bullaggini con gli insegnanti, tutto viene mandato in rete perché si suppone che tutto faccia spettacolo. Non contesto: il calcio è uno spettacolo, tanti pagano il biglietto per vederlo, o si collegano alle pay tv. Altri non pagano perché è un calcio che non chiede soldi, si fa dove capita.
Dovremmo tutti ricordarci più spesso che il calcio è un gioco (giuoco, secondo la Figc) e uno sport. Il gioco è l'eterno fascino del pallone che rimbalza, la felicità che non si sa spiegare. La facilità, anche. Quelli della mia generazione sono passati, a seconda del comune di residenza, per i campi irregolari degli oratori o delle case del popolo. Oratori, nel mio caso, e la frustrazione più grande era quella di non poter fare tunnel al prete, perché aveva la sottana. Mi piace ricordare una cosa, di quel lontano periodo: l'innata e inconsapevole (credo) sportività che avevamo da ragazzini. Al mio paese, bassa Brianza, si imitava il grande calcio a modo nostro. Si gridava enz e offsài (hands e off-side) ed c'erano i due capitani. Le maglie delle squadre non le aveva nessuno e nessuno aveva mai sentito parlare di merchandising. Ma i due capitani, ecco la sportività, si giocavano il diritto di scegliere i compagni (a pari o dispari, bìmbumbam, oppure a facia o crusa, con una figurina). Chi vinceva sceglieva il più in gamba, poi toccava all'altro capitano e così via via fino a quando si imbarcavano i più scarsi. L'ho definita innata, perché per anni s'è fatto così, era la regola e nessuno ha mai avuto da ridire. Inconsapevole, ho aggiunto, perché voglio tenermi un margine di dubbio. Non lo tenessi, dovrei pensare che eravamo più saggi noi, in braghe corte, dei vari Moratti, Berlusconi, Abramovich, Calderon. Quello che ci interessava era formare due squadre il più possibile equilibrate, perché lì stava il divertimento, nell'incertezza del risultato. Certamente si giocava per vincere, ma un 46-10 non ci avrebbe dato soddisfazione, molto meglio un 31-27. Tenevamo perfino conto del fuorigioco, per sentirci ancora più vicini ai campioni della domenica, e non avevano arbitro né guardalinee, però calci di rigore, o a due in area, nel dubbio, e calci d'angolo venivano battuti senza che ci mettessimo le mani addosso. Tutto sommato eravamo saggi, ma allora non lo sapevo, ho cominciato a pensarlo molto tempo dopo.
Il calcio che abbiamo attraversato ha subito i cambiamenti maggiori negli ultimi vent'anni. La Coppa dei Campioni aperta fino a quattro squadre della stessa nazione, la numerazione sulle maglie da 1 a 99, difficile da mandar giù perché tutti sappiamo che una maglia ha un numero che è al tempo stesso un simbolo, ma per me il peggio non è vedere un attaccante col 99 sulla schiena, ma un portiere col 10. Non c’è più religione. Non c’è più mistero, le dozzine di telecamere consentono la lettura labiale. Non c'è quasi più critica, solo cronaca. Ripenso ai mondiali del 1982: la prima penna di Repubblica era Gianni Brera, del Corriere della Sera Mario Soldati, della Stampa Giovanni Arpino. C'era il mito, forse non del tutto aderente alla realtà, del critico super partes. Adesso basta pagare e si ha diritto a una telecronaca dichiaratamente, sfacciatamente parziale. Sempre nell’82 mi raccontava Paolo Rossi, poi più noto come Pablito: “Abitavo a Prato, andavo a vedere la Fiorentina due volte al mese, quando giocava in casa. Il mio mito era Kurt Hamrin, seguivo ogni suo movimento, ogni sua finta per poi provare a ripeterli. Nell'intervallo andavo dall’altra parte del campo. Altra possibilità non avevo". Paolo Rossi, ginocchia fragili e grande fiuto del gol, con queste frasi si ricollega a Dorothee Solle. Perché tanti erano e sono i ragazzini che s'ispirano a un calciatore, quello che più colpisce la loro fantasia, e di questo un campione dovrebbe essere sempre consapevole. Se può sembrare eccessivo chiedergli di dare il buon esempio, è normale chiedergli di non dare cattivo esempio. Per lui il gioco è diventato un lavoro molto ben retribuito. Qualche dovere ce l'avrà pure. Questo vale anche per gli allenatori, dopo un lungo periodo di caccia alla bellezza, e di emarginazione del talento.
Il 1O, la maglia più simbolica di tutte, sta uscendo dalla riserva indiana. Sto parlando di Roberto Paggio, scarsamente compreso da Juve, Milan, Inter, più libero a Firenze, Bologna e Brescia. Sto parlando di Gianfranco Zola, costretto ad esportare in Inghilterra i suoi 168 centimetri di classe purissima. Sto parlando, e vale al massimo come al minimo di livello, di tutti i fantasisti, i trequartisti, i mingherlini costretti a scegliere se diventare punte o centrocampisti, perché il loro ruolo non era previsto negli schemi. È da questa emarginazione che sono nate le ammucchiate a centrocampo e il pressing, che trasforma il calcio in flipper. Il calcio che vorrei per il futuro: se non otto tortonesi nel Derthona, almeno tre o quattro, la stessa quota di milanesi o, almeno, lombardi nell'lnter e nel Milan, di romani a Roma, di veronesi al Chievo. Vorrei i vivai tutelati nei fatti e non solo a parole. Vorrei che la legge Bosman non fosse presa alla lettera. Vorrei le rose dei titolari meno vaste, perché pure di lì passa la speranza: Rivera, Mazzola, Baresi, Maldini, Bergomi, Totti, dicono niente questi nomi? Dalle giovanili alla prima squadra, ai trionfi mondiali. Non è questione di prendere il treno al momento giusto, è che il treno deve fermarsi. So di non aver parlato di scandali, di doping, di violenze dentro e fuori gli stadi, di militarizzazione delle domeniche, di trasferte impossibili. Anche questo è il nuovo calcio o, se preferite, la nuova Italia che lo circonda. Una volta si andava in trasferta e si sceglieva la trattoria giusta, si faceva sport e turismo. Adesso la polizia sorveglia gli autogrill e i locali vicini agli stadi tirano giù la saracinesca. Non ne ho parlato apposta, si festeggia un centenario e non bisogna appesantire i festeggiamenti.
Auguri di cuore, dunque, al vecchio Derthona che compie un secolo e ha ancora voglia di correre. Non lo conosco e lo conosco bene, ripeto, perché quello che conta davvero, nel calcio, è la passione e la bellezza. Un pallonetto dai venti metri, una botta dritta nel sette, una parata a fill di palo sono belle ovunque, al di là del nome dell’autore, per questo aderisco alla definizione di Eduardo Galeano: “mendicanti di bellezza”. La passione è sempre quella, verrebbe da dire: si vince, si perde e si pareggia. Ma, come i fiocchi di neve, nessuna partita è uguale a un’altra, nessun risultato e dunque nessuna emozione si equivalgono nel profondo. Ecco perché si continuano a seguire i rimbalzi di un pallone e perché Brera, parafrasando Guido Gozzano, si sentiva autorizzato a scrivere: “Calcio, mistero senza fine bello”.